L' Imprenditore
La mente all'industria, il cuore in Europa
Europeista convinto, Gardini sosteneva la necessità di rendere il Vecchio continente autonomo sotto il profilo alimentare ed energetico. A colpi di acquisizioni e ristrutturazioni, si era messo a giocare al tavolo mondiale della Globalizzazione.
di Cesare Peruzzi

Quando prese il timone del gruppo Ferruzzi, nel 1980, Raul Gardini aveva le idee chiare sulla rotta da tenere. L’esperienza degli oltre vent’anni passati al fianco del suocero Serafino Ferruzzi, il fondatore della dinastia ravennate e padre della moglie Idina; ma soprattutto le scelte societarie dell’ultimo periodo, con l’acquisto dell’Eridania in Italia e l’impegno azionario nella parigina Beghin-Say (leader nella produzione di zucchero rispettivamente in Italia e Francia), lasciavano pochi dubbi all’imprenditore 47enne: il futuro del gruppo era nell’industria, con il mercato globale come punto di riferimento, ma la testa le radici e il cuore in Europa. Il suo impegno, infatti, fu immediatamente rivolto a trasformare la Ferruzzi da importante trader mondiale di derrate alimentari in una grande multinazionale europea dell’agroindustria.

Il cambio di strategia era dettato dai tempi e dalla visione personale dell’imprenditore Gardini, europeista convinto, fautore della necessità di rendere il Vecchio continente autonomo sotto il profilo alimentare ed energetico. Non solo: la scelta di indirizzare la prua con decisione sull’industria di trasformazione delle materie prime agricole conteneva già tutti gli elementi della futura rivoluzione verde, che portò Gardini e la Ferruzzi a sfidare lo scetticismo di molti e l’interesse di alcuni. Questi ultimi, contrari a ogni ipotesi di cambiamento degli equilibri economici e politici basati sul consumo degli idrocarburi, rappresentarono lo scoglio più pericoloso (non il solo) su cui la nave del gruppo di Ravenna andò a sbattere dieci anni dopo. Un percorso che lo stesso Gardini ha fotografato in una lettera al Sole 24 Ore, pubblicata sulla prima pagina di Finanza del quotidiano milanese il 23 giugno 1993: un documento straordinario, perchè realizzato un mese prima della scomparsa dell’imprenditore

Ivan Gardini padre di Raul

La lunga lettera inviata da Gardini

Conobbi Gardini nel gennaio del 1980. Mi aveva dato appuntamento in un ristorante di Bologna, su mia richiesta (all’epoca lavoravo al settimanale Il Mondo del Corriere della Sera), perché avevo già incontrato il suocero alla Borsa merci di Milano e avevo anche scritto diversi articoli sul gruppo, salito improvvisamente alla ribalta delle cronache con l’operazione Eridania. In quell’incontro Gardini mostrò subito di che pasta era fatto, come uomo e come imprenditore: aperto, immediato, ironico, da buon romagnolo pronto alla battuta, generoso nel coinvolgere l’interlocutore nei propri pensieri e progetti; visionario nella misura in cui solo gli imprenditori che vogliono raggiungere obiettivi importanti sanno essere, appassionato e competente nel parlare di agricoltura e ambiente, forse un po’ sognatore, nel senso che tendeva a sottovalutare gli ostacoli, ma ben dentro i meccanismi decisionali dei big del mondo e in particolare dell’Unione europea. In sintesi, mi disse che bisognava smettere d’inquinare il pianeta, che la terra non era riproducibile e dunque andava salvaguardata e che l’agricoltura, un’agricoltura sana e ben gestita, era alla base di ogni sviluppo economico e sociale, in passato e in futuro. Mi disse anche che intendeva far giocare al gruppo Ferruzzi un ruolo centrale in questo processo, a livello mondiale. Quell’incontro, per me giovane cronista di economia (avevo 26 anni) ebbe l’effetto di una finestra spalancata su orizzonti lontani. Uscii dal ristorante con la convinzione che gli imprenditori dovessero essere così: visionari e coraggiosi.

​In quei mesi del 1980, che seguirono all’improvvisa scomparsa di Serafino Ferruzzi in un incidente aereo, nel dicembre 1979, Gardini aveva non soltanto idee ma anche coraggio da vendere, soprattutto aveva chiaro che l’epoca d’oro delle importazioni di derrate agricole dai Paesi produttori ai mercati di consumo, cioè dalle Americhe (Nord e Sud) verso l’Europa, volgeva inesorabilmente al termine. Le condizioni che avevano reso possibile la nascita e lo sviluppo impetuoso della Ferruzzi non c’erano più: l’Europa che, finita la Seconda guerra mondiale, aveva necessità d’importare quasi tutto e dipendeva dall’estero per assicurare l’alimentazione delle persone e degli allevamenti, costretta ad acquistare grano, orzo, soia e farine di soia indispensabili per rifornire di proteine vegetali le mangiatoie degli animali da carne e da latte, questa Europa si era scoperta improvvisamente esportatrice di quelle stesse materie prime, almeno per quanto riguardava la filiera dei cereali, mentre il Vecchio continente restava fortemente deficitario sul fronte dei proteici (la soia, appunto).

​All’inizio degli anni 80 i silos dell’Unione europea erano stracolmi, grazie a trent’anni di Politica agricola comune (Pac), che aveva assicurato reddito certo agli agricoltori: un successo di politica industriale di cui avevano approfittato soprattutto gli agricoltori francesi, del Nord Europa e della Pianura Padana, e che stava imponendo un drastico cambiamento dettato dall’esigenza di smaltire le eccedenze e di gestire una nuova fase di sviluppo non più ancorata alle importazioni (escluse le materie proteiche) ma alle esportazioni e alla trasformazione. Gardini capì questo passaggio storico nel momento in cui si verificava e, forte anche della base industriale costituita con l’acquisto di Eridania (che si aggiunse agli impianti storicamente posseduti nel settore oleario, la Italiana olii e risi che produceva oli e farine vegetali per alimentazione umana e animale), spinse al massimo il motore del gruppo nella direzione dell’industria di trasformazione. Il carburante (cioè i mezzi finanziari) arrivò in larga misura dalla Borsa.

 

Foto per gentile concessione di Ferdinando Scianna

Gruppo Ferruzzi: A new global company

Gruppo Ferruzzi: Il coraggio di credere in una nuova epoca di sviluppo

​«Quando ho ereditato da mio suocero Serafino il timone del gruppo, la Ferruzzi era essenzialmente una grande società di trading internazionale», scrive Gardini nella sua lettera testamento al Sole 24 Ore. «Su un fatturato complessivo di 3mila miliardi di lire il peso dell’industria non superava il 20% e in buona parte si trattava di attività industriali acquisite nel corso dell’ultimo anno. La struttura del gruppo era di tipo familiare, le singole società erano possedute direttamente dalle persone fisiche, non esisteva un bilancio consolidato e neppure un organigramma completo di tutte le attività sparse nel mondo. La Borsa era qualcosa di misterioso, a cui ci eravamo avvicinati da appena un anno con l’acquisto dell’Eridania e dell’Agricola finanziaria. La Ferruzzi era cresciuta attraverso gli anni 60 e 70 essenzialmente grazie alla spinta e alla genialità del suo fondatore. Ma era una barca inadatta ad affrontare gli anni 80. In primo luogo perché l’attività di trading si stava rapidamente ridimensionando. In secondo luogo perché i settori industriali in cui operava, come lo zucchero e l’olio di semi, erano in condizioni disastrose. Infine, perché la struttura del gruppo era di tipo “arcaico”, le società erano generalmente sotto-capitalizzate, l’esposizione finanziaria verso le banche abbastanza alta e garantita dai beni personali della famiglia».

In questa situazione, anziché accontentarsi del livello di benessere raggiunto senza farsi carico di troppe responsabilità. Gardini affrontò il problema con il piglio e l’ambizione dell’imprenditore e non del rentier. Va considerato che Gardini nasce in una famiglia di ricchi agrari della Romagna, fa le sue prime esperienze gestionali nell’azienda del padre e quando conosce Idina Ferruzzi il patrimonio delle due famiglie (Gardini e Ferruzzi) è pressoché equivalente. Raul entra nel gruppo Ferruzzi nel 1957, come socio al 10% grazie ai soldi datigli dal padre che non voleva andasse “sotto padrone”. All’inizio si occupò delle attività cementiere, poi del settore oleario e delle materie grasse (arrivando alla carica di rappresentante europeo della categoria), successivamente come braccio destro di Serafino, rappresentando sempre l’anima più europeista e industriale del gruppo che stava crescendo. Niente di strano, dunque, se nel 1980 propose ai familiari e azionisti di imboccare la strada più impegnativa ma anche più avvincente, come lui stesso certifica nella lettera scritta un mese prima di morire.

Gli anni 80 furono quelli della grande crescita industriale. In questo decennio la Ferruzzi contribuisce al risanamento e al consolidamento del settore saccarifero nazionale, e acquista il controllo della Beghin-Say in Francia, dando vita al più importante raggruppamento industriale europeo in questo campo. Contemporaneamente, la Ferruzzi riorganizza e risana il comparto degli oli vegetali, creando anche in questo caso il principale raggruppamento manifatturiero d’Europa, con l’acquisto di molti piccoli produttori traballanti in Italia, del colosso Lesieur in Francia, di Koipè in Spagna e di Central Soya negli Stati Uniti. Anche il lancio del “progetto soia”, che grazie al sostegno di Bruxelles promosse in grande stile la coltivazione di questa leguminosa in Europa, consentendo all’Italia di diventare nel 1988 il primo produttore continentale, va nella direzione di sostenere e alimentare gli impianti industriali sul territorio. A completare la filiera, Ferruzzi rilevò poi le attività della Cpc Europa, diventando leader continentale anche nella produzione degli amidi. Alla fine degli anni 80, il giro d’affari del polo industriale agroalimentare che fa capo a Eridania supera i 13mila miliardi di lire. E il rapporto con le attività di trading, rispetto a dieci anni prima, è completamente invertito.

​Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la coincidenza di due fattori: il ricorso al mercato mobiliare e al credito delle banche. Due elementi di cui nessun imprenditore che si rispetti può fare a meno – racconta Gardini -. Il boom di Borsa degli anni ’85-’87 fece da volano a un processo che era già ampiamente avviato e che aveva trovato la sua espressione più significativa nella riorganizzazione del gruppo, con la quotazione di tutte le attività della famiglia Ferruzzi e la presentazione dei primi bilanci consolidati. Insomma, ci siamo presentati pubblicamente al mercato, con tutte le carte in regola, dichiarando ufficialmente quali erano le nostre strategie e gli obiettivi. Il mercato e gli operatori ci hanno dato credito e fiducia. Questo ha consentito al gruppo di crescere in maniera equilibrata, senza mai fare il passo più lungo della gamba. Anche perché a ogni acquisizione seguivano sempre delle dismissioni di attività non strategiche: valga per tutte la divisione carta della Beghin-Say.

​Nella corsa verso un posto di rilievo nel panorama industriale italiano ed europeo, il gruppo Ferruzzi ha un alleato potente: la Mediobanca di Enrico Cuccia. È l’istituto milanese di via Filodrammatici la principale sponda finanziaria (insieme a Comit e Banco di Roma) e il punto di riferimento strategico della Ferruzzi. Ed è la Mediobanca che nel 1985 apre al gruppo di Ravenna le porte del capitale della Montedison. Due anni dopo, Gardini decide di scalare il controllo dell’azienda chimica, con un’operazione improvvisa e abile che però non piacque né a Cuccia né ai referenti degli equilibri politici italiani. Gardini vedeva nella Montedison la prospettiva concreta di attuare un’integrazione tra agricoltura e chimica, grazie alla ricerca, con l’obiettivo di produrre nuovi materiali dalle materie prime agricole anziché dal petrolio: il sogno della “chimica verde”, appunto, e la saldatura perfetta delle idee e dei progetti dell’imprenditore di Ravenna.

​La conquista della Montedison, realizzatasi nel 1987, ebbe un costo complessivo di 2.500 miliardi. Una cifra considerevole, che alcuni osservatori allora ritennero eccessiva – ricorda Gardini nella lettera al Sole –. «La mia valutazione degli asset Montedison era però di 12mila miliardi. E la Morgan Stanley, a cui affidai una stima subito dopo l’acquisizione, stabilì in 15mila miliardi di lire il valore di break up del gruppo chimico. Stime e valutazioni che si sono puntualmente rivelate esatte. Basti dire che la vendita di Standa, Mira Lanza e Rol fruttò circa 1.500 miliardi, con il che l’esposizione finanziaria della Ferruzzi tornò immediatamente in equilibrio. Si aggiunse poi la cessione del 40% di Enimont (2.805 miliardi). Ma il mercato ci aveva già chiesto anche la divisione farmaceutica offrendo 2.800 miliardi, Himont con una valutazione di 5mila miliardi, nonché Ausimont e Antibioticos per altri mille miliardi. La conquista della Montedison, in breve, fu un autentico affare, che impose il gruppo Ferruzzi ai vertici dell’industria non solo nazionale ma mondiale. Continuo inoltre a pensare che l’idea di dare vita a un grande gruppo chimico italiano, unendo le attività di Montedison e di Enichem, fosse un disegno strategico giusto. Il cui fallimento deve essere imputato alla volontà di non mollare la presa sul settore da parte delle forze politiche di allora, oltre che alla mia personale intransigenza, di cui però non mi rammarico».

​La conquista della Montedison, in realtà, fu l’inizio dei guai per l’imprenditore Gardini e per la Ferruzzi. Se infatti da una parte consentì al gruppo ravennate di sedersi a tavola con i primi della classe in ambito internazionale e di avviare i progetti di ricerca e d’integrazione agricoltura-industria che stavano a cuore a Gardini, come nel caso di Tencara per i nuovi materiali sperimentati nella vela con l’avventura del Moro di Venezia in Coppa America, ma soprattutto come nel caso di Novamont, l’azienda di Novara dai cui centri di ricerca uscirono le prime plastiche biodegradabili di origine vegetale; dall’altra parte, invece, l’avventura in Montedison creò le condizioni per la nascita di Enimont, la joint paritetica con Eni, che anziché consegnare la chimica italiana in mani private, come pensava Gardini, diventò lo strumento che tolse la chimica dal controllo di Gardini e si trasformò nello scoglio fatale per la Ferruzzi.

«Nel 1991, fallito il progetto chimico, si trattava a mio avviso di ripensare il futuro del gruppo – scrive Gardini nel giugno del 1993 –. Era un momento analogo a quello che avevamo già vissuto nel 1980. La strada che bisognava seguire subito è nota: dismettere le attività chimiche che ci erano rimaste e per la quali potevamo attivare diverse offerte. Operazione che ci avrebbe consentito di ridurre nettamente l’indebitamento di Montedison. Era inoltre mia intenzione cedere l’editoria e la Calcestruzzi, per la quale avevamo ricevuto un’offerta di 800 miliardi di lire. Proposi infine di acquisire il controllo della Sociètè Centrale d’Investissements, una holding francese quotata alla Borsa di Parigi di cui eravamo già soci, con una spesa di 900 miliardi. Contestualmente, la Sci avrebbe rilevato il 60% della Serafino Ferruzzi Srl per 1.600 miliardi. In questo modo, la famiglia Ferruzzi avrebbe intascato 700 miliardi liquidi mantenendo il controllo del gruppo oltre a conservare una quota del 40% della Serafino Ferruzzi Srl che a mio avviso avremmo dovuto utilizzare per creare attraverso una Fondazione quel paracadute per le future generazioni che ci avrebbe messo al riparo da qualsiasi pericolo di smembramento del patrimonio».

Il progetto non fu approvato e Gardini dovette uscire dal gruppo Ferruzzi insieme alla moglie Idina, che fu liquidata dai fratelli con 505 miliardi.

​Il sogno della chimica verde era sfumato insieme all’utopia Enimont ed era finita anche l’avventura di Gardini dentro il gruppo Ferruzzi (due fatti che di lì a pochi anni dettero i loro frutti avvelenati con le inchieste di Tangentopoli). In quel momento, appena consumato il divorzio dai Ferruzzi, l’imprenditore Gardini dimostrò di avere la voglia, le idee e la capacità di ripartire. Nel libro intervista che realizzammo insieme proprio a cavallo dell’estate del 1991, alla domanda sul perché non dormisse mai più di cinque ore per notte, rispose così: «Perché mi diverto di più a stare sveglio. Vado a letto con l’ansia di alzarmi. E vado a letto solo quando sono molto stanco. Se vai a letto stanco, sei sicuro di riposarti bene; se poi sai di aver fatto il tuo dovere, riposi meglio; se infine non hai rimorsi di coscienza, meglio ancora. E la mattina, quando ti alzi presto, dici: meno male così ricominciamo». E infatti ricominciò.


​Con i mezzi ricavati dalla vendita della quota (23%) della Serafino Ferruzzi Srl da parte della moglie Idina, creò la Gardini Srl e acquistò il controllo della francese Sci (cioè fece l’operazione studiata per la Ferruzzi e bocciata dai fratelli di Idina). L’obiettivo strategico dichiarato fu quello di trasformare la Sci in una vera e propria holding industriale. Attraverso la Sci rilevò le attività della carne e del cacao in Francia (Vital-Sogeviandes e Cacao Barry), diventando il primo produttore europeo in entrambi i settori, e le acque minerali in Italia (leader nazionale con i marchi Levissima, Recoaro, Pejo e la distribuzione di Fiuggi). Sempre nel comparto alimentare rilevò il controllo di marchi prestigiosi, come Caffè Hag, Faemino, Digerselz, Pandea, e negli alimenti surgelati Arena, Brina e Mare Pronto. Il giro d’affari, all’inizio del 1993, raggiunse i 2.900 miliardi di lire.

Poi provò a lanciare un’Opa sul gruppo alimentare pubblico Sme. Fosse riuscita, Gardini si sarebbe ritrovato alla testa di un colosso da oltre 10mila miliardi di lire di fatturato. Ma l’operazione non partì per l’opposizione del mondo politico italiano. Anche il vecchio alleato Mediobanca, con cui aveva perso sintonia fin dall’affare Montedison e poi durante le vicende Enimont, si mise di traverso e bloccò il tentativo di riappacificazione con la famiglia Ferruzzi che sembrava a portata di mano. Sono i giorni in cui Gardini prende carta e penna e scrive la lettera-testamento al Sole 24 Ore. Che resterà il suo ultimo messaggio pubblico da imprenditore.

Cesare Peruzzi, giornalista, è stato capo ufficio stampa del gruppo Ferruzzi dal 1985 al 1986. Sulle vicende del gruppo ravennate ha scritto un libro (“Il Caso Ferruzzi”, Edizioni del Sole 24 Ore, 1987) e nel 1991 ha realizzato con Raul Gardini il libro-intervista “A Modo Mio” (Mondadori Editore).